"Light breaks where no sun shine"
di Italo Nobile
Nel corso della sua avventura artistica Antonio Barbagallo era stato colpito dalla contrapposizione tra la natura aerea delle lettere e dei numeri e il magmatico dinamismo della realtà.
Questa contrapposizione, seguendo la scansione che il mondo moderno dà al tempo dell'anima, rischiava di rovesciarsi in un dominio assoluto dell'astratto, dominio sancito dalla prigionia di fiori e radici all'interno di ammiccanti involucri di vetro e plastica ( forse un mattino andando in un'aria di vetro, arida...).
Eppure questo processo non si è ancora concluso: l'artista si sofferma di fronte alla tendenza della realtà ad una completa sparizione. L'inquinamento luminoso ha ormai cancellato la visione delle stelle dalle nostre città. Il meriggio eterno della produzione umana spreca tanta luce da offuscare anche la luce degli astri. Di essi non abbiamo più bisogno per illuminare la strada, ma li invochiamo internamente per illuminare il nostro destino ( tornano in alto ad ardere le favole...). Il cielo sembra una lastra di piombo ( impossibile esprimere la luce opaca prodotta dal cielo immutabilmente grigio...), senza stelle.
Tuttavia, la mente umana, imperterrita, continua a cercarle, sia pure priva dell'illusione di ammirarne lo splendore. L'ansia di mettere ordine nella propria esistenza diventa sforzo continuo di porre simboli al posto di oggetti che ormai si sottraggono allo sguardo.
Certo anche ciò che non è osservabile ha una sua esistenza, ma mette tristezza il fatto che alle stelle che non riusciamo a vedere nemmeno con i più potenti telescopi noi assegniamo segni numerici per differenziarle le une dalle altre. Al posto della luce rimane l'effervescenza puramente mentale del numero.
Barbagallo registra attonito questo processo e cerca di rappresentarne drammaticamente il decorso in una serie di sue opere: le stelle vanno progressivamente facendosi più piccole, chiuse in celle che ne assorbono tutta l'energia, fino a sparire, mentre i numeri scolpiti nella materia godono di un'eternità assolutamente priva di vita.
In questa nuova serie di installazioni l'artista però cerca di trovare la via d'uscita da questo enigma paralizzante. In un primo momento si serve di una candela. Questa serve quando l'oscurità non permette nemmeno di muoversi. Fa luce in un piccolo spazio attorno a noi e ci permette di non cadere ( la piccola lamada brilla per mezzo all'oscura città...).La candela è la nostra sopravvivenza. E' la coscienza che non getta luce sulle cose, non le individua nei dettagli, ma permette, muovendosi con i nostri passi, di far sapere agli altri che noi ci siamo ( accendo cauto una candela bianca nella mia mente, apro una vela timida nella tenebra...).
Quando c'è il sole, la candela può essere un ammasso inutile di cera, una cosa tra le cose. Essa irradia luce, ma non sempre illumina. Barbagallo mette le sue opere alla luce della candela, non per renderle chiare, ma per farci consapevoli del loro carattere ombroso. Il magma della vita si ripresenta sincopato, interrotto, oscuro, ma sempre risorgente (light breaks where no sun shines...).
La stella solitaria della nostra mente ammicca alla vita, un po' la copre, un po' la rivela. Ci consente di non cadere, ma non ci permette di dominare il mondo.
Al tempo stesso ciò che al sole è una cosa, alla luce della candela assume altre valenze, altre forme. Il magma della vita non è del tutto chiaro all'osservazione, ma si mostra in diversi aspetti, secondo l'ordine del tempo, a seconda che ad illuminarlo sia l'occhio di Dio o il piccolo strumento dell'uomo. Questo ci predispone ad accettare meglio un altro passaggio, la sparizione delle stelle e il manifestarsi di altre luci, altre coordinate, con le quali non possiamo più leggere la realtà come un libro ( o Shamash, tu scruti con la tua luce le regioni del mondo come se fossero un testo cuneiforme...), ma possiamo rappresentarcela senza perdere la poesia.
Il secondo passo dell'artista è quello di togliere la cera ormai consunta e di presentarci la vita (dei cieli, della terra) nel suo divenire sincopato e ingabbiato in schemi dal linguaggio alfanumerico. Anche la coscienza sembra essersi fatta da parte, con le stelle. Chiusa da questi schemi, l'esistenza degli uomini cerca di trovare espressione nella forma, ma una forma che non ci dà figure familiari, ma solo allusioni, come nelle figure viste in sogno ed in cui possiamo riconoscere ciò che la nostra anima ci detta: uccelli fantastici, branchi che ricordano le caverne del Paleolitico, profili umani.
Negli ultimi sguardi il magma della vita si arrende all'astrazione. Su superfici d'argento che esplodono prima letter così schematiche e scomposte da sembrare le prime tracce di animali che hanno suggerito a noi l'idea della scrittura, e poi arrivano i numeri, che ormai sottomettono la nostra vita al punto che noi stessi siamo gli animali da soma di un sistema che si alimenta da sé. Ma quali tracce lasciamo, in questo cammino carico di alienazione ( Vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle...)?
E qui l'artista ci stupisce per la terza volta: ci sono rimasti solo i nomi, solo i segni che stanno per le cose. Queste ultime sembrano essere andate via, ma nel magma vitale ingabbiato dagli schemi si inseriscono dei percorsi: i numeri si trasformano in grandezze vettoriali che danno una direzione all'anima e in essi si riconoscono iniziali e date di nascita.
La vita diventa come una mano con le sue linee che si incrociano per poi ripartire e percorrono la lava incandescente dell'esistenza come un mare vasto e tranquillo. Il cielo ridiventa zodiaco, con dodici tavole finali, e siamo noi a camminare in esso per stringere quei legami che tengono la rete dell'universo, o di ciò che ne rimane. L'artista diventa un aruspice che getta linee per scrutare non tanto il futuro, quanto nel cuore degli uomini, ma non è forse lo stesso?
I numeri da gelidi testimoni si trasformano in numeri amici. Amici nostri, a dispetto di altre classificazioni. Degli amici si tratta, infatti. Il cielo, privo di stelle e di astri, riacquista nuove luci: così come dopo Ragnarok, il cielo del mito si ripopola di altri dei.
Nell'universo di Antonio Barbagallo questi dei sono del tutto terreni, appartengono all'ambito vitale quotidiano: sono le persone che scandiscono il nostro tempo, coloro che amiamo ( homo hominis deus est). Non si tratta di altri cieli o di altre terre. Il cielo è qui, sulla terra. Noi dobbiamo imparare a frequentarlo, a solcarlo, a tracciare le strade di una città
quando a mirar torniamo anche una volta
ciò ch'arde in cuore, ciò che brilla in cielo;
noi s'è la buona umanità che ascolta
l'esile strido, il subito richiamo,
il dubbio dell'umanità sepolta
e le risponde: - Io vivo,sì, viviamo. -
Dal catalogo "Nomina nuda tenemus"